Non passa nessun altro giorno senza che non la pensi.

E non è un attimo di debolezza quello che mi stringe, ma successivi minuti a volte ore che mi trasformano il tempo.

E non so più quanto e come odiarla, se odio può mai essere.

 

Adesso provo qualcosa. Vorrei non provare quel qualcosa, ovvero vorrei avere una tabula rasa, il nulla quindi. Che nella mia attesa si trasforma in qualcosa di solido, quasi tangibile e può essere espresso come voglia di ridere e ricominciare.

Perchè questa voglia non c'è. C'è solo lei. E come malattia insanabile sta sempre sul punto di diventare cosa sopportabile.

 

Come sciacallo mi nutro di pochi, incoffessabili ricordi. Quei pochi che, quasi precognitore e conscio di una fine violenta, mi sono fermati in zone della mente facili da scovare, come armadio a doppia anta riempito di quattro cappotti di colori sgargianti. E in quelli puntualmente mi rifugio: e me li godo, coprendo punti di vista prima trascurati e adesso di nuovo tornati vivi grazie a piccoli particolari; un profumo, una goccia di sudore, un capello sugli occhi.

Un bacio.

 

E in quel mentre come squarcio al petto, sento pieno e reale dolore per la sua assenza.

 

Quando definisci la felicità spesso non senti di dire nulla che non sia, o che non non reputi, banale. Ma l'infelicità ho imparato da lei a definirla. E' la sua lontananza, la so misurare ormai: quando mi sento coraggioso, tanto da poterla chiamare e dirle ciao, ecco sono solo meno infelice del solito.

 

Ci sono due pillole. Cambiano colore ogni volta, rossa o bianca, blu o gialla o nera. Sono sempre lì e non ne scelgo alcuna. Ma devo. La prima mi farebbe dimenticare tutto di lei,

come mai fosse esistita per me. L'altra mi direbbe la verità su di lei, se di vero amore si è trattato, se magari mi pensa ancora.

Nessuna delle due,

fermo sulla scelta. Paura di tutte e due, paura di scegliere, tempo per poter raccogliere più forze.

Sarei una persona povera senza il suo ricordo, ma almeno senza paure.

 

Sarei solo, forse più di quanto lo sia adesso.